Make the world your bush toilet #2, un anno fa Uluru

La data di scadenza di questo blog è passata da un pezzo, da quando sono tornata dall’Australia e ho sperimentato il mal di Oz di cui nessuno mi aveva parlato. Un anno fa mi ritrovavo in mezzo al nulla circondata da sabbia rossa. Per vincere una bicicletta del Corriere della Sera, avevo scritto questo post, la bici è rimasta a via Solferino, ma ecco il testo.

Make the world your bush toilet. Se potessi riassumere il mio viaggio in Australia con una frase, forse quella pronunciata dalla mia guida nel deserto sarebbe la migliore. Terra bruciata, arida, eppure ti lascia così florida. L’Australia è unica. Così enorme e così piccola allo stesso tempo, perdersi per le sue strade è un viaggio a parte, un’avventura alla scoperta di se stessi.
In questo pazzo, pazzo continente, in cui meduse grandi come nei possono ucciderti in un nanosecondo, mentre ragni enormi sono innocui e solo schifosi, ho riscoperto me stessa. A 28 anni, con un bagaglio pieno di vestiti sbagliati, ho lasciato la mia città adottiva, pronta a visitare luoghi e animali che avevo visto solo sui libri. Ogni angolo di queste città enormi e pure piccolissime nasconde qualcosa: una targa di un paesino sperduto dell’Aspromonte, i quattro re delle carte napoletane a ricordarti chi sei, confusi fra anziani fermi a un bar sport intenti a parlare in dialetto. Sembra che tutto si sia fermato. Mentre ti perdi fra vicoli colorati, chiese presbiteriane e anonimi grattacieli, ti innamori delle conchiglie dell’Opera House e ti riscopri bambina mentre ti ritrovi a tu per tu con un koala.
Rivedi i volti di italiani che hanno avuto il coraggio, anni fa, di lasciare tutto e, come loro, croati, greci e chi più ne ha più ne metta. Leggere le loro storie e vedere i loro bagagli nei musei dell’immigrazione ti emoziona, ed è bello che un Paese così giovane abbia già imparato dai propri errori. Vedere i volti dei piccoli della generazione rubata, siano essi aborigeni o inglesi o irlandesi, ti lascia basita e inerte. Bimbi a cui hanno rubato il futuro pur offrendogliene uno: lasciare tutto per un po’ di sole e, se sei fortunato, un albero di arance. Facce tristi a quattro o a 50 anni. Dopo aver asciugato le lacrime ti emozioni ancora: i 12 apostoli e tutta la Great Ocean Road a bordo del solito pulmino con quella che è la tua famiglia per un paio di giorni. Di famiglie, in quasi un mese, ne ho avute parecchie, quasi quante le emozioni egualmente distribuite nell’arco di 23 giorni: ostelli, aerei e grasse grosse nozze greche.
E quando meno l’aspetti, arriva lei, la rossa Uluru: un’immensa scultura, così perfetta che sembra l’abbia creata Michelangelo. L’ho circumnavigata come Magellano fece con il globo. Mentre cammini e cammini, scopri di amare una cultura, ormai quasi scomparsa. Sotto il sole a picco i piedi sono rossi e la guardi con tutto il rispetto del mondo. Con molto meno rispetto ti ritrovi a urinare qua e là in mezzo all’infinita autostrada che ti porta da Uluru a Kata Tjuta e Kings Canyon e sai che quello che fai non è una mancanza di rispetto, ma è una sorta di presa di posizione. Rendi il mondo la tua bush toilet. Già…piscia come se non ci fosse un domani.

Uluru

Uluru in tutto il suo rosso splendore

Diario australiano #11, Melbourne ti amo

vi avevo promesso che vi avrei parlato della gioventù australiana, ma nel frattempo mi sono innamorata di Melbourne, sarà il fatto che Dio è nato qui (Eric Bana), sarà che è molto meno dispersiva di Sydney, sarà che ho già acquistato la mia copia di He Died With a Felafel in His Hand, sarà che si trova ancora qualcosa di gratis, ma Melbourne è splendida, batte Sydney 20 a 0, e non pensate che sia per il clima, in un giorno a Melbourne ci sono 4 stagioni in un giorno, verità scolpita su pietra, ieri diluviava, oggi c’è il sole, domani forse nevica, ma per quello c’è tempo.
Stasera approfondirò una delle cose più amate da Eric Bana, il footie

Diario australiano #10, lost in Sydney

Per quattro sere di seguito mi sono persa a Sydney, strade tutte uguali a se stesse, si potevano chiamare Puffetta Street, Orange, Chiara, Maria, Giuditta tutte sono uguali, in mancanza assoluta di punti di riferimento il mio poco (vamos, il mio nullo) senso dell’orientamento ha fatto il resto.

Dopo tre giorni da turista errante, ho trovato la mia strada: tutto e’ cambiato. L’unico punto di riferimento erano le semisfere dell’Opera House, raramente ho visto un edificio cosi’ magnetico, non riesci a smettere di guardarlo, ti segue e ti lascia senza respiro la tastiera australiana mi toglie il respiro e la poesia,
ci vediamo appena trovo il wifi, vi parlero di Melbourne e della gioventu australiana.

bacini da Melbourne,

Chiara

Diario australiano #9, as cute as a koala

Qui in Australia dicono as cute as a koala ci sarà un motivo? La mia passione per i koala ha radici lontane come ogni donna nata fra il 1975 e il 1989 ho visto e sono stata traumatizzata da Georgie e dal suo incredibile rapporto con i due fratelli Abel e Arthur e la sua incredibile libertà di costumi, considerando che a otto anni fa il bagno nuda con perfetti sconosciuti in un lago insolitamente azzurro visto che qui l’acqua è marrone. Sesso a parte, Georgie passa le sue giornate con Luppi il suo koala, insolito visto che seppur così fottutamemte soffici, i koala passano la loro vita su alberi di eucalipto e se non dormono, mangiano e se no fanno qualcos’altro visto che la clamidia è una della cause di morte di questi peluche viventi, se non ci credete cercate su google le due chiavi e vedrete.

Clamidia a parte, buona parte del mio viaggio l’ho passata alla ricerca di Luppi, l’ho sfiorato mentre dormiva e mentre mangiava e ho anche comprato due mini koala per i miei fidanzapotini, ho anche pagato per scattarmi la foto con due di loro, ma che t’importa, mangia, non bivi e futtattindi proprio come un koala.

Diario australiano #8, Dio è nato a Bondi

Dio è nato a Bondi ne ho le prove: in questa spiaggia anche i ciottoli e i cani sono più belli di quelli del resto del mondo. Biondi, mori, giovani, anziani, boxer, aspiranti modelle e attrici, bimbe che si credono hippy e non se ne capisce il motivo, ma tutti vanno in giro scalzi, ammetto che ci ho provato, ma l’asfalto brucia e dovrò lavarmi i piedi con l’alcool puro per i prossimi giorni.

Ma torniamo allo spreco di beltà, ogni donna o uomo del globo sarebbe soddisfatta da questa fête de la saucisse/pêche di dimensioni colossali, per far vedere che sono prossimi a Dio si dilettano a fare addominali, flessioni, step e a ogni angolo c’è uno con una tavola, una racchetta, cazzo un cane…

Io e Giorgio ci apprestavamo a fare una camminata di 3 ore sotto il loro e per fare un po’ di god-watching quando le mie Birkenstock mi fanno scivolare, sporca di un misto di erba e sabbia proseguo e decido di comprare un nuovo paio di shorts, uno spazio vuoto fra due rocce che dopo aver scalato mezzo Outback me lo mangio a colazione e invece PEM cado, scivolo, abrasione, dolore, perdo una scarpa due surfisti (brutti) mi raccolgono e ricado, altri due mi raccolgono e noto che sto sanguinando, combatto contro le mosche e mi ricopro di mercurio cromo.

Dopo aver acquistato un vestito, decido di riprendere la camminata, ma mi dico, la faccio a modo mio, ecco che seguo surfisti che manco in prima media, giocatori di Beach volley, Beach soccer, Beach rugby, onde, surfisti, onde, surfisti anche perché quando mi ricapita di essere così vicina a Dio?

Diario australiano #7, make the world your bush toilet

Anche quel pallone gonfiato di Gabriele d’Annunzio farebbe fatica a trovare le parole per descrivere uno spettacolo del genere. Una roccia grande quanto una città non rende l’idea, ma la sabbia e la quantità di acqua ingerita per girare intorno a questo ammasso di terra sacra forse sì. è una sorta di metafora del passaggio all’età adulta per gli aborigeni, indi nessuno può toccare il suo santo e sacro suolo con delle empie e sporche suole. Non solo lungo il canmmino ci sono molti punti in cui non si possono scattare foto come Mala Puta, no niente a che vedere con il mestiere più antico del mondo, ma il posto in cui le donne aborigene del luogo durante i primi mesi della gravidanza venivano a chiedere una mano, ci sono poi graffiti raffiguranti scene di caccia, animali (emu e canguri si trovano anche sul simbolo della bandiera australiana il perché è presto detto sono incapaci di andare indietro, si muovono solo in avanti e ti viene da dire altro che ruote dentate e Marianna). Se poi la vedi in tutta la sua grandiosità all’alba e al tramonto ti rendi conto che sei di fronte non solo a uno spettacolo mozzafiato, ma ti guarisce da tutti i mail.

Se siete arrivati fino a qui avete letto solo la prima tappa del mio tour nell’Outback, la batteria dell’IPhone mi sta abbandonando ma sappiate che ho eritemi solari in ogni dove, un livido che sembra fatto da un marito governo, e un insieme di sensazioni che non avevo da anni adesso vi saluto sono tornata alla civiltà e al wifi gratis e meno male visto che a Sydney dov’è che chiedono soldi anche per l’aria che respiri

Diario australiano #6, as fit as a fiddle

Eritema solare, catarro, congiuntivite e Giorgio on the way, sono l’espressione della salute. Il catarro e io abbiamo stretto una relazione prima di partire pensavo che ci saremmo lasciati, invece è ancora qui con me. La congiuntivite è arrivata con l’eritema/allergia alla crema solare protezione 30 bambini e neanche la tonnellata di vini che ho ingerito/provato uno dall’irriguardevole gradazione alcolica di 20 mi hanno guarito, spero che qualche aborigeno (per il momento sembra che sia io la loro migliore amica in tutto il Paese) mi cosparga di terra rossa e mi guarisca.
Baci da Adelaide

Daun Ander #5, Australia Day

Arrivata. Dopo due giorni di viaggio, tre aeroporti, due scali sono finalmente arrivata a destinazione. Vedendo le case dei sobborghi di Melbourne mi sembrava di essere a metà strada fra Wisteria Lane e le Nozze di Muriel.

Insetti (per il momento) esclusi, il nemico da combattere è il jet lag, il mostro ha le sembianze della narcolessia o se preferite della vostra peggiore sbornia. A Dubai sono riuscita a dormire 45 minuti e mi sembrava di essere rinata, poi fra Drive, The Help e ancora Ryan Gosling sono riuscita a chiudere occhio.

Ma torniamo a Melbourne, ho celebrato anch’io l’arrivo della prima flotta nel porto d Sydney nel 1770 e qualcosa, mentre in Francia Lady Oscar muoveva i primi passi nella guardia reale una nave stava arrivando e tutto il resto non era noia, non era neanche gioia, ma solo terra rossa o giù di lì.

L’Australia Day l’ho celebrato con un barbie, un tradizionale barbecue australiano a casa di amici di amici diventando la loro eroina perché non se ne capisce il motivo ero fresca come una rosa nonostante il temutissimo jet lag, ecco di dunque bere una birra, farmi largo fra l’accento australiano e coccolare uno splendido cane pastore e scoprire che cetriolo in greco si dice angur.

Gli australiani sono davvero splendidi, ti sorridono prima di parlare, fanno di tutti per essere amati anche bere della birra alle 8:10 del mattino.

Daun Ander #3, …E morì con un felafel in mano

Se non avete visto questo film, come nel caso di Muriel tanto vale smettere di leggere (si consiglia di cliccare su play per avere una colonna sonora degna durante la lettura del post). E morì con un felafel in mano è uno di quei filmetti che si amano alla prima visione. Diretto da Richard Lowenstein, che grazie a perigrazioni su imdb.com ho scoperto essere il regista di un lungometraggio che ho adorato da ragazzina, presentato a qualche Giffoni Say a Little Prayer, che parlava dell’amicizia fra una malata di Aids e un bambino… uno di quei film che vedi in qualche noioso pomeriggio estivo e ti entra dentro.

In E morì con un felafel in mano seguiamo l’aspirante scrittore Danny cambiare tre case nell’arco di un anno (credo): Brisbane, poi Melbourne e infine Sydney, fra una partita di golf con rospi, un sabba organizzato in giardino, un amico drogato (Syd, lui è quello che muore con la pietanza turca in mano mentre ascolta la sempre splendida Golden Brown) e un’amica bisex che è disperatamente innamorata di lui. Oltre a rendere omaggio a Solaris in una splendida scena, questo film entra di diritto nel pantheon dei miei film preferiti e spero che non pioverà così quando arriverò a Melbourne.

Otis: How exactly do you mean gaga?
Danny:
Gaga. Insane, beserk, talking in tongues, you know… gaga.

Danny ha una macchina da scrivere, anch’io ne avevo una, le foto che ha sulla sua bacheca (apparentemente l’unica cosa che possiede) potrebbero essere appese sul muro di casa mia: Anna Karina, Jean Paul Belmondo, Jean-Paul Sartre…

I wasn’t allowed to moan because it sounded like a cliché. I wasn’t allowed to gasp because it sounded like a cliché. I wasn’t allowed to say, ‘I love you’ because it sounded like a cliché! How do you climax without it sounding like a cliché?